Basta che scorgano un sacchetto di plastica e gridano:
«Mai più, non ti vogliamo più vedere, fai paura, devi sparire!»
Così urlano oggi, e mi viene tanta, tantissima tristezza. Perché non è sempre stato così. Io ero presente. Tutti mi desideravano, perché ho fatto molto, per tutti gli umani di ogni parte del mondo. Che sconforto, dopo tutti quegli apprezzamenti.
Mi presentavo nelle mie vesti migliori ed ero utile. E oggi sta tutto finendo. Da ogni parte del mondo mi gridano dietro. Ci sono posti dove, se mi trovano, vengo multata e per me si rischia perfino la prigione. Una realtà che fa star male. Perché all’inizio non era così.
Adesso so di essere nata in un paese triste, ma allora non me ne rendevo il conto. Portavo in giro il latte e ne ero fiera. Un alimento così importante! Molti lo bevevano, piaceva a tantissimi, arrivavo a tutte le età. Mi sentivo fluida, palpabile e appetibile. Costituivo un involucro tanto riconoscibile quanto insolito. Trasportavo un prodotto utile. Avevo senso di esistere. Nell’immaginario collettivo io – un sacchetto di plastica, proprio io con il latte – sono diventata un’icona.
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Propaganda
E vogliamo parlare della propaganda di allora? I manifesti, fermi, appiccicati su un muro, erano ecologici? Non so, oggi anche la loro forma cartacea è diventata discutibile. Però a quel tempo il suo peggio era costituito dai messaggi che i manifesti portavano. Dalle informazioni che dovevano dare. I primi, sempre gli stessi, erano evidenziati dal solito colore rosso, i secondi, con gli avvisi così noiosi, inutili, che senso avevano?
E poi, contro i manifesti bastava un acquazzone, l’aria e il tempo che li sbiadiva. Perduravano con una veste sfregiata e stanca. Chi li voleva? A chi piacevano? Gli slogan politicamente corretti erano fermi ad un angolo: “Siamo tutti uguali”.
Concordo, anch’io portavo sempre “la solita scritta”, ma la mia era pratica. Le scritte che tutte noi portavamo non avevano paura di un nubifragio.
Non ne ho mai fatta una questione di rivalità, neanche per il latte portato dalle bottiglie di vetro. Eravamo ugualmente utili ma destinate ad un approccio diverso.
Messaggi e immagini
Notavamo invece le nostre sorelle. Le chiamo così perché appartenevano alla stessa catena di produzione, anche se arrivavano dal più allegro Ovest. E questo si vedeva. Il messaggio che mostravano era particolarmente attraente. Un ricordo a rimarcare l’esistenza del superfluo, orgogliosamente spostato da un quartiere ad altro, da una città ad altra. Perfino da una nazione all’altra, il superfluo superava anche le frontiere più ferree. Il loro servizio stava soprattutto nel manifestare una scritta pubblicitaria. Che appariva meno banale e soprattutto accompagnava grandi immagini colorate.
Quello che era rivoluzionario, però, era che loro si potevano riutilizzare. I sacchetti di plastica avevano acquisito i manici e sostituivano le borse di stoffa. Chiamate shopper anziché “borsetta”, e portavano di tutto. Sono diventate un oggetto d’uso quotidiano. Non temevano le intemperie e portavano diversi oggetti, anche di un certo peso. Venivano esibite con orgoglio da chi le possedeva e venivano trattate di conseguenza. Anche quando la pubblicità che mostravano era di colore rosso, ma delle sigarette Marlboro.
Sacchetto di plastica
Succedeva in un paese triste in mezzo all’Europa, afflitto da un regime. Sì, appartenevamo alla stessa categoria, ma nessuno ci chiamava “plasticaccia”.
Infatti noi ci sentivamo tutte uguali. Anch’io che portavo il latte, una volta aperta, potevo essere riutilizzata ma le altre sfoggiavano la loro apparenza in un ciclo molto più lungo. Tutte, però, avevamo uno scopo, un’utilità, ed essere di plastica ci rendeva orgogliose. Eravamo le pioniere del progresso nell’imballaggio. Eravamo belle, impermeabili, ripiegate potevamo stare in una tasca e duravamo, oh quanto duravamo…
E questi nostri valori tanto esibiti e riconosciuti di allora, la nostra forza di restare per sempre, è arrivata al capolinea. Sono diventata un oggetto del passato, un problema.
Il dopo del “sempre”
Come gli slogan sui manifesti di carta, in un paese triste, che sbiadivano nel tempo di un lampo, così oggi è finita la nostra rivoluzione. Dicono di noi:
«I sacchetti di plastica sono una delle fonti più dannose di inquinamento quotidiano».
Scrivono anche che ”intasano le discariche e rilasciano sostanze chimiche tossiche quando vengono bruciate”. E poi ancora che soffocano gli animali. E questo mi dispiace tanto.
Penso al latte che portavo e mi fa male.
Ma ogni rivoluzione va documentata per essere ricordata. Sapete una cosa? Io ora sto in una raccolta che appartiene ad un giovane. Lui è appassionato di oggetti retrò e ci tiene con grande cura. Ci esibisce con orgoglio e alcune di noi sono esposte come dei quadri nelle bacheche. Sa tutto di noi, ha sempre un racconto di come siamo stati preziosi per documentare l’epoca del bell’involucro e dei prodotti “usa e getta”, che allora si riutilizzavano.
Posso dirvi un’ultima cosa?
Questa speranza del “per sempre” non scomparirà mai, perché ogni inizio glorioso apre la strada ad un’epoca ancora più epica. Le partenze non sono sempre tanto consapevoli, ma ci si spera. Forse quella della plastica ci ha coinvolte perché bastava essere totalmente diversi.
Il mio collezionista è ancora giovane, ma sa già che a volte basta un passo indietro. Spesso scorgo sulla sua scrivania del latte, ma pure l’acqua, in una bottiglia di vetro.
Un altro racconto:
Game over,
Dal sito:
Shop Parole di legami
Curiosità legata ai sacchetti per conservare il latte:
Effetto nostalgia retrò da Lidl
Link esterno:
Aukro, collezionisti
Benvenuti, mi chiamo Veronica Petinardi, sono nata a Praga e anche se scrivo in italiano mi sono tenuta il mio “accento di lingua madre”. Pubblico articoli, narrativa e manuali sul sito Parole di legami. La mia specialità sono le parole, scrittura è la mia passione.